Dista circa quattro chilometri da Pennabilli, di cui è la frazione più estesa, ne fanno parte sette “borghi”: Monticello, Marinelli, Aia di Bartolo, Castello, Aia Marcucci, Pantaneto e Villa.
Il villaggio originario, denominato Marzano, Matiano ed infine Maciano, accolse entro le proprie mura gli abitanti di un villaggio confinante, detto il Sorbo, che fu distrutto anticamente da una frana. Cresciuto di importanza, si eresse a comune e nel 1361 fu annesso a Pennabilli.
Di notevole interesse artistico è la chiesa di Santa Maria dell’Oliva e l’annesso convento dei frati Minori. Fu eretta nella prima metà del XIV per volere dei conti Oliva di Antico. Nel XIV secolo la borgata conobbe un certo splendore quando vi risiedette Benedetto, vescovo del Montefeltro.
Non molto distante dall’abitato, lungo la strada per Soanne, si può visitare l’oratorio dei Marinelli, una chiesetta solitaria che accoglie al suo interno un affresco quattrocentesco, “La Madonna del Latte,” attribuita al maestro di S. Arduino e la torre cilindrica, recentemente restaurata, secondo alcuni ciò che rimane di un castello, secondo altri, una isolata torre di avvistamento
Santa Maria dell’oliva a Maciano di Pennabilli (di Pier Giorgio Pasini)
Il posto è bellissimo, e invita ad una sosta prima di riprendere la salita verso Pennabilli e il Carpegna. Pianeggiante, fa appena presagire il declivio precipite verso il Fiume, la cui valle allontana paesi e colline e monti, ora pallidi e opalescenti, ora cupi e grigi a seconda delle ore e delle stagioni. Al limite di quello spazio pianeggiante sorge una chiesa che guarda verso la strada e volta le spalle alla valle; bella nella sua semplicità, dalle linee solide e sobrie che rimandano ad un Rinascimento sereno e rustico, un po’ fuori dal tempo. E’ accogliente, per il gran portico che la circonda e che invita ad una sosta alla sua ombra, rinforzata da quella dei cipressi del piccolo cimitero. Chiesa di frati non si direbbe, a prima vista, anche perché la macchia dei cipressi nasconde la gran fabbrica del convento. E invece è stata chiesa francescana fino al 1955, eretta su “suolo lateranense”, come correttamente avvisa uno stemma di pietra bianca nel timpano dell’arco centrale.
I frati, si sa, avevano fiuto nello scegliere i posti ‘migliori’. Però il merito, questa volta, non va a loro, ma alla Madonna in persona che, scortata da Sant’Ubaldo, nel 1523 sarebbe apparsa a una certa Giovanna di San Leo, ed avrebbe richiesto una chiesa proprio lì. Questa povera Ioanna a Sancto Leone non doveva godere di una gran reputazione, se fu giudicata mezzo scema dal notaio vescovile (mulier semifatua, ha scritto); anche padre Antonio Talamonti, una cinquantina d’anni fa, definendola “devotella” le dava poco credito. Eppure, nonostante, come dire, la sua semplicità, e nonostante i leontini siano sempre stati guardati con un po’ di sospetto da queste parti, la Giovanna riuscì a convincere un sacco di gente dell’autenticità della sua visione, tanto che la comunità di Maciano si prese a cuore la faccenda: con molto coraggio e molti sacrifici, bisogna dire. Infatti non si era ancora ripresa dai saccheggi consumati dalle truppe toscane nel 1517 e nel 1522, durante le guerre che videro contrapposto Lorenzo de’ Medici a Francesco Maria della Rovere. Durante quelle guerre la Madonna era apparsa ben due volte in aiuto dei Pennesi che, appena passata la bufera e rientrati stabilmente nel ‘ducato’ d’Urbino, si erano subito messi al lavoro per ingrandirne il santuario. Decenni davvero brutti, di grandi sconvolgimenti e di guerre, quelli del primo Cinquecento; e, naturalmente, tempi di apparizioni frequenti. Illusione? Chissà. Comunque la comunità di Maciano, forse anche perché un po’ presa da invidia e da spirito di rivalsa nei confronti dei Pennesi e della loro Madonna delle lacrime, nonostante la diffidenza del tribunale vescovile credette alla ‘visione’ della Giovanna e riuscì a costruire un suo santuario mariano ‘indipendente’. Nel giro di appena cinque anni, dal 1524 al 1529, la chiesa fu cominciata e finita, e dedicata a “Santa Maria della Palma o dell’Olivo” (la Giovanna avrà detto di aver visto la Madonna su un olivo, appunto). Sul portale è scolpito a chiare lettere: TEMPLUM DIVAE MARIE DE OLIVA MDXXIX. Fu consacrata un secolo dopo, a cura dei Francescani a cui era stata affidata nel 1552 con la benedizione del pontefice Giulio III e a dispetto del curato di Maciano, che non gradiva la concorrenza. I Francescani (si trattava dei Minori Osservanti) a partire dal 1553 le costruirono a fianco un grande convento, ricco di sale, di celle, di magazzini, e con una bella biblioteca (che sulla porta recava la data 1635); gli ultimi libri furono venduti meno di cent’anni fa da un frate ingenuo che si prese poche lire e molte umiliazioni, con denunce e processi. Invece furono venduti impunemente, dopo la partenza dei frati, tutti gli stupendi armadi di noce della sagrestia, datati 1723, da chi aveva in custodia il convento, cioè una comunità che poi è svanita nel nulla. Ci sono voluti anni di pratiche complicate, due processi in tribunale che si sono conclusi solo nel 1994, perché la Provincia Picena S. Giovanni della Marca dei Frati Minori potesse rientrare in possesso dell’edificio: che intanto ha cominciato a crollare. Ma ora la ridefinizione della proprietà riempie di speranza sulla sua sorte.Si tratta infatti di un monumento di straordinario interesse da molti punti di vista; per quanto riguarda quello artistico si lega ad una bella serie di architetture che manifestano la diffusione in tutto il Montefeltro delle armoniose forme del rinascimento urbinate. Ad Antico, a Pennabilli, a Piandimeleto, a Montefiorentino e altrove se ne trovano di similari e tutte denunciano le loro radici nel palazzo ducale di Urbino, per via degli ornati pilastri di pietra, dei cassettoni fioriti, delle proporzioni armoniose. Nella chiesa di Maciano quelle radici mostrano di aver alimentato per secoli un gusto che si manifesta in aggiunte architettoniche e in affreschi del XVI secolo, in tele del XVII, in policromi paliotti del XVIII e addirittura ancora in pitture fratesche degli anni Venti; un gusto evidentemente sostenuto da una ininterrotta continuità di devozione in cui, poco a poco, almeno dalla metà del Seicento furono coinvolti tutti i paesi della zona, anche per merito della vita esemplare e delle iniziative dei Francescani; che amarono molto questa chiesa e questo loro convento, tanto da volerlo riacquistare per ben due volte dopo le soppressioni del 1810 e del 1861. Della loro operosa e devota presenza ci parla ancora, e con efficace eloquenza, soprattutto il grande e silenzioso convento, che ha purtroppo subìto un degrado pauroso in questi ultimi decenni. Si sviluppa, come d’obbligo, attorno ad un luminoso chiostro dai grandi archi. Le sue colonne sarebbero state donate ai frati, da una contessa Oliva, e proverrebbero dalle rovine di un suo palazzo che sorgeva ad Antico: ma si tratta di una ‘leggenda’ recente, nata per giustificare il titolo de oliva dato alla Madonna, e le forme architettoniche della chiesa, in tutto simili a quelle della chiesa di Antico. Nelle lunette del portico, ora disastrato e in più punti pericolante, sono dipinti ad affresco la vita e i miracoli di San Francesco; purtroppo solo poche lunette sono ancora leggibili, ma doveva trattarsi di un insieme imponente. Quel che rimane è tuttavia prezioso: perché testimonia il coinvolgimento nell’opera di tutte le comunità della zona, finalmente unite nel desiderio di onorare il poverello d’Assisi: ogni affresco, infatti, reca (o recava) il nome dell’offerente, e ancora si possono leggere quelli delle comunità di Penna, di Maciano e di Soanne. E perché fa un po’ di luce su un misterioso pittore di Pennabilli, certo Giovanni Bistolli, che ex diversis piorum benefactorum elemosinis le ha dipinte a rate, nel 1656, 1657, 1658, 1659, come lui stesso dichiara. Non era scarso, questo pittore, come dimostrano le scene ben costruite e pittoresche, con scorci e ritratti assai vivaci, mescolati ad ingenuità che sembrano dovute soprattutto a pesanti restauri ottocenteschi (del 1897). Doveva far parte di una dinastia di artisti attiva nel Montefeltro e in Romagna, esaltata dagli storici locali, ma ignota altrove; con un Marco, già morto nel 1615; un Francesco documentato nel 1631 e un Giulio nel 1658. Di questo Giovanni conosciamo solo un’altra opera, molto modesta però, del 1662. Qui a Maciano le sue narrazioni portano nel silenzio del chiostro un palpito di colore e di movimento; sono chiare, efficaci e abbastanza disinvolte; riflettono i costumi barocchi e la vita agitata del tempo con il suo bisogno di eventi ‘meravigliosi’, mescolati a sogni di poesia e di semplicità, di fede autentica, di valori non effimeri, suscitati dall’efficace evocazione della vita del poverello d’Assisi. Alta su un muro del chiostro una meridiana segnala da secoli il lento scorrere delle ore.